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Un Concistoro per tornare a Nicea?


Il canone 353 del Codice di Diritto Canonico afferma che i cardinali "prestano principalmente aiuto con attività collegiale al Supremo Pastore della Chiesa nei Concistori". È un'affermazione che racchiude un'antica e nobile visione della Chiesa: quella di un corpo che consiglia, discerne e cammina insieme, sotto la guida del Successore di Pietro. I Concistori — ordinari o straordinari — rappresentano da secoli uno dei momenti più solenni e significativi della vita ecclesiale, nei quali la cattolicità si fa concreta attraverso il consiglio dei pastori del mondo intero.

In questo contesto, la notizia giunta il 6 novembre dalla Segreteria di Stato ha suscitato grande attesa: "Il Santo Padre Leone XIV ha in mente di convocare un Concistoro Straordinario per i giorni 7 e 8 gennaio 2026". Poche righe, firmate con la consueta formula di reverenza, ma sufficienti a far vibrare di speranza il cuore di chi ama la Chiesa e desidera vederla rinnovata nella comunione. Nessun tema è stato ancora reso pubblico, ma il solo annuncio di un concistoro "straordinario" basta a far intuire che il Papa intende affrontare una questione di particolare gravità o urgenza, come recita il dettato canonico.

Dopo anni in cui il governo della Chiesa ha conosciuto strumenti consultivi più ristretti — dal Consiglio dei nove cardinali istituito da Papa Francesco, al diffuso ricorso a commissioni e organismi tematici — Leone XIV sembra voler restituire al Collegio cardinalizio la sua funzione originaria: quella di essere il primo e più autorevole consiglio del Papa, segno visibile dell'universalità della Chiesa e della collegialità episcopale. È un gesto che molti leggono come un ritorno a forme di governo più partecipate, in cui la voce dei cardinali di tutti i continenti possa contribuire al discernimento del cammino comune.

È difficile dire, per ora, quali temi saranno affrontati. Ma tra le tante questioni che toccano il cuore della cattolicità, ve n'è una che da decenni — anzi, da secoli — attende una soluzione: la data della Pasqua. È un tema che non appartiene alle mode del momento, né ai dibattiti dottrinali di frontiera; ma riguarda l'essenza stessa della fede cristiana, la memoria dell'evento che fonda la nostra speranza: la risurrezione del Signore.

Oggi i cristiani, divisi in calendari e tradizioni, celebrano la Pasqua in giorni diversi. A volte con una settimana o due di distanza, altre volte con quasi un mese di scarto. È una ferita alla testimonianza dell'unica fede nel Cristo risorto. Com'è possibile che i discepoli dello stesso Signore non condividano la stessa gioia pasquale, lo stesso "giorno fatto dal Signore"? Come si può annunciare al mondo la riconciliazione universale se proprio nel giorno della Risurrezione i cristiani si mostrano disuniti?

Non è più accettabile che l'evento fondante della fede cristiana sia celebrato in date differenti. Non si tratta di un dettaglio liturgico, ma di un simbolo profondo, di una realtà teologica e pastorale insieme. L'unità della Pasqua è un segno di comunione, una testimonianza di credibilità. Ogni anno milioni di fedeli in Oriente e in Occidente vivono la frattura di questa dissonanza: alcuni hanno già spento le candele della Veglia quando altri devono ancora accenderle. È una ferita che pesa sul cuore del mondo cristiano e che chiede di essere sanata.

È chiaro che il passo decisivo deve compierlo la Sede di Pietro, non per imporre ma per proporre, non per dominare ma per servire. L'unità della Pasqua non può essere frutto di un decreto calato dall'alto, ma neppure può nascere senza un gesto coraggioso da parte di Roma. È alla Chiesa di Pietro che spetta l'iniziativa di riconciliare i calendari, di offrire una via che rispetti le tradizioni e allo stesso tempo le unisca.

In verità, non si tratterebbe di un atto di forza, bensì di un ritorno alle origini. Il Concilio di Nicea del 325 stabilì un criterio comune per la celebrazione della Pasqua, proprio per superare le divisioni del tempo. Eppure, nei secoli, il sorgere dei diversi calendari — giuliano e gregoriano — ha riproposto quella frammentazione che il primo concilio ecumenico aveva cercato di sanare. Oggi, a distanza di quasi diciassette secoli, il mondo cristiano potrebbe tornare a Nicea, non solo nel ricordo, ma nello spirito: un concistoro straordinario che riaccenda il desiderio di un'unica Pasqua, celebrata insieme, sarebbe un segno profetico di unità.

Le Chiese cattoliche orientali, in comunione con Roma, già vivono la complessità di questo tema. Molte di esse seguono il rito bizantino e adottano per le feste mobili il calendario giuliano, mentre per quelle fisse utilizzano il gregoriano. È una duplice fedeltà che testimonia la ricchezza della tradizione e al tempo stesso la difficoltà di una sintesi piena. Da parte loro, le Chiese ortodosse restano legate al calendario giuliano, che calcola l'equinozio di primavera secondo un computo ormai sfalsato rispetto al tempo astronomico. Tuttavia, negli ultimi decenni non sono mancati segnali di apertura, e perfino alcune voci autorevoli del mondo ortodosso hanno espresso il desiderio di unificare la data pasquale.

Per questo, se Roma facesse il primo passo — non per imporre, ma per abbracciare — il gesto avrebbe un valore immenso. Forse sarebbe proprio questo il segno più eloquente del pontificato di Leone XIV: un Papa che decide di piegare il calendario gregoriano per amore della comunione, scegliendo di celebrare la Pasqua secondo il calendario giuliano, lasciando invece inalterato quello per il Natale e le altre feste. Non sarebbe una concessione, ma un atto di servizio; non una rinuncia, ma un'offerta di unità.

È facile immaginare che le Chiese della Riforma, che già condividono con Roma la medesima sensibilità biblica e liturgica, accoglierebbero questo passo con gratitudine. Anche loro comprendono che la divisione delle date pasquali è un contro-segno per il Vangelo. In un mondo frammentato e secolarizzato, la forza della testimonianza cristiana sta nella sua unità, non nella sua varietà di calendari.

Per questo, il Concistoro straordinario di gennaio 2026 potrebbe diventare un evento storico, non solo per la Chiesa cattolica, ma per l'intera cristianità. Se davvero Leone XIV deciderà di porre sul tavolo la questione della Pasqua comune, potremmo assistere a un gesto di portata ecumenica senza precedenti: un ritorno a Nicea, non come esercizio di archeologia, ma come atto profetico per il nostro tempo.

La Chiesa ha bisogno di segni che uniscano. E nulla unisce più del celebrare insieme la Pasqua del Signore. Forse il cammino verso l'unità dei cristiani non passerà da dichiarazioni solenni o documenti complessi, ma da un calendario condiviso, da una stessa data in cui tutto il mondo cristiano canti all'unisono: "Cristo è risorto, è veramente risorto!".

Se questo sarà il frutto del prossimo concistoro, Leone XIV avrà scritto una pagina di storia non solo per i cattolici, ma per l'intera famiglia dei credenti in Cristo. Allora sì, potremo dire che la Chiesa è tornata davvero a Nicea — e che da quella comunione ritrovata, il mondo intero potrà trarre nuova speranza

Marco Baratto

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