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La spina americana nel cuore del Papa: il rischio di uno scisma silenzioso

Nel cuore del Papa c'è una spina silenziosa, una ferita che fa male e che pochi, da questa parte dell'Oceano, riescono davvero a comprendere. Si tratta del cattolicesimo americano, o meglio, di quella che potremmo definire "la questione americana". Un problema che in Europa passa quasi inosservato, ma che in Vaticano è avvertito con crescente preoccupazione.

La radicalizzazione della politica negli Stati Uniti è ormai evidente a tutti. Ciò che invece sfugge a molti è quanto questa polarizzazione abbia contagiato anche la vita della Chiesa americana. Da un lato, il mondo progressista e i Democratici utilizzano spesso le parole del Papa come arma politica contro i Repubblicani; dall'altro, i cattolici più conservatori si spingono verso posizioni che, in Italia, sembrerebbero paradossali. È accaduto, ad esempio, che il Papa sia stato accusato di "comunismo" dopo la sua esortazione apostolica sulla povertà.

Questa parte del cattolicesimo statunitense si sta trasformando in qualcosa di nuovo, ibrido e pericoloso: un "cattolicesimo evangelico". Si tratta di una corrente che, dall'evangelismo americano, assorbe il fervore religioso, la centralità assoluta della Bibbia e il linguaggio radicale, ma dimentica le radici del cattolicesimo stesso: il catechismo, il magistero, la tradizione viva della Chiesa. La Bibbia viene interpretata alla lettera, senza la guida della Chiesa, come se ciascuno potesse farsi teologo di sé stesso.

Il Papa ha cercato di correggere questa deriva, ricordando – come fece Leone XIII – che essere "pro life" non significa soltanto opporsi all'aborto, ma anche rifiutare la pena di morte, difendere la dignità dei poveri, accogliere i migranti e custodire il creato. Una visione integrale della vita umana, profondamente cattolica, ma spesso rifiutata da ampi settori del mondo evangelico e ora anche da molti "neo-cattolici" americani.

Questi "cattolici evangelici", in larga parte convertiti provenienti dal protestantesimo, portano con sé la retorica patriottica e moralista tipica dell'evangelismo statunitense. Il problema è che, pur avendo abbracciato la Chiesa cattolica, non ne hanno assimilato l'anima. Invece di lasciarsi plasmare dal cattolicesimo, cercano di piegarlo alla loro visione teologica e politica, costruendo una fede nazionalista e autoreferenziale. Per loro, il Papa non è il successore di Pietro, ma un leader religioso da giudicare secondo categorie politiche: se parla di poveri e di giustizia, è un "socialista"; se predica la misericordia, è "debole"; se richiama all'obbedienza al Magistero, è accusato di "tradire la fede".

Il pericolo, che il Santo Padre conosce bene e per cui soffre profondamente, è che si stia consumando lentamente uno "scisma americano". Non uno scisma proclamato apertamente, ma un processo silenzioso, culturale e teologico, che rischia di condurre alla formazione di una Chiesa cattolica "nazionale", indipendente nei fatti, se non ancora nelle forme. Una Chiesa americana per gli americani, che mette il patriottismo sopra la comunione con Roma, e la politica sopra il Vangelo.

Il cattolicesimo americano di oggi non è più quello di Santa Francesca Saverio Cabrini, né quello dei fedeli irlandesi, italiani, polacchi o messicani che hanno costruito con sacrificio la Chiesa negli Stati Uniti. È una nuova edizione, profondamente segnata dalla cultura del successo, dal potere economico, dalla logica dello scontro. La fede diventa così uno strumento identitario e politico, non più una via di salvezza universale.

Di fronte a questo scenario, la domanda sorge inevitabile: cosa fare? Fingere di nulla, nella speranza che il tempo risani le ferite? Oppure affrontare apertamente il problema, rischiando però di accelerare una frattura già in atto? La risposta non è semplice, ma la storia offre una lezione preziosa.

Nella sua enciclica Mit Brennender Sorge (1937), Pio XI denunciava con parole profetiche il pericolo di una "Chiesa nazionale" tedesca, piegata alle ideologie del tempo. Scriveva:

"Se persone, che non sono neanche unite nella fede in Cristo, vi adescano e vi lusingano col fantasma di una 'chiesa nazionale', sappiate ciò non essere altro se non un rinnegamento dell'unica Chiesa di Cristo, un'apostasia manifesta dal mandato di Cristo di evangelizzare tutto il mondo, che solo una Chiesa universale può attuare."

Quelle parole, pronunciate allora contro il nazionalismo tedesco, risuonano oggi con inquietante attualità per la Chiesa americana. Anche oggi, come allora, alcuni cercano di sostituire l'universalità cattolica con un'appartenenza nazionale e ideologica. Ma il cattolicesimo non può essere americano, italiano o tedesco: è, per definizione, cattolico, cioè universale.

Forse è tempo che Roma, pur con prudenza e carità, richiami i suoi fratelli americani a questa verità fondamentale. Non per condannare, ma per salvare. Non per punire, ma per purificare. Come scriveva ancora Pio XI, la moderazione della Chiesa non nasce dalla debolezza, ma dal desiderio di "non strappare, insieme con la zizzania, anche qualche buona pianta". Tuttavia, arriva sempre un momento in cui la verità deve essere proclamata con chiarezza.

Se il processo di scisma dovesse proseguire, forse sarebbe meglio essere un piccolo gregge fedele piuttosto che una moltitudine confusa e ribelle. La Chiesa non teme di essere minoranza; teme solo di perdere la sua fedeltà a Cristo. Un cattolico autentico deve sapere che il suo primo obbligo morale è verso Roma, verso Pietro, verso quella roccia che il Signore ha posto come fondamento della sua Chiesa.

Essere cattolici significa accettare il Magistero, riconoscere l'autorità del Papa, credere nell'unità della Chiesa universale. Chi non accetta questo, per quanto possa dirsi devoto, non è più veramente cattolico. E forse, proprio in questa verità semplice ma profonda, si gioca oggi il futuro della Chiesa americana — e, con essa, il cuore stesso della cattolicità.

Marco Baratto

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