La visita a San Paolo Fuori le mura, un gesto forte verso l'ebraismo, l'islam, l'unità delle chiese e....la guerra russo ucraina
In una sola notte, la Basilica di San Paolo fuori le Mura venne divorata dalle fiamme. Era il 1823, e l'incendio distrusse una delle chiese più antiche e simboliche della cristianità. Quell'evento non fu solo un disastro architettonico, ma anche un trauma spirituale per Roma e per l'intera Chiesa cattolica. Eppure, da quella distruzione nacque qualcosa di più grande: non una semplice ricostruzione, ma un atto di fede, memoria e diplomazia.
Papa Leone XII lanciò un appello ai fedeli di tutto il mondo: la Basilica sarebbe stata ricostruita "com'era e dov'era", riutilizzando i frammenti risparmiati dal fuoco. Non si trattava solo di restaurare pietre, ma di mantenere viva la tradizione cristiana attraverso la continuità fisica e spirituale dei luoghi santi. Quella chiamata non cadde nel vuoto: la risposta fu globale. Blocchi di malachite e lapislazzuli arrivarono dallo zar Nicola I di Russia per adornare i due altari laterali; colonne e finestre in alabastro vennero offerte dal re Fouad I e dal viceré d'Egitto Mohamed Ali, entrambi musulmani. Così, la Basilica di San Paolo diventò il cantiere più imponente della Roma ottocentesca e, ancor più, un laboratorio di dialogo interreligioso ante litteram.
Oggi, a distanza di due secoli, la storia sembra ripetersi, ma in chiave simbolica e con una posta in gioco ancora più alta. Papa Leone XIV – e non è un caso che porti proprio questo nome – compie la sua prima visita pubblica da Pontefice recandosi proprio a San Paolo fuori le Mura. Non sceglie il Laterano, la cattedra del vescovo di Roma, né San Pietro, il cuore del potere spirituale e politico della Chiesa. Sceglie invece la basilica dell'apostolo delle genti, Paolo, il missionario, il ponte tra mondo ebraico e mondo greco-romano, il primo grande teologo della cristianità universale.
Non si tratta solo di una scelta liturgica o devozionale. In questa visita c'è un gesto intenzionale, carico di messaggi stratificati. È il riattivarsi di una strategia antica: la diplomazia dei gesti. Leone XIV, come il suo predecessore omonimo, sembra parlare più con i simboli che con i discorsi ufficiali. Nella Basilica ricostruita grazie a un papa Leone, con il contributo di due sovrani musulmani e di uno zar ortodosso, il Pontefice moderno costruisce un ponte silenzioso tra le fratture del presente.
In particolare, la presenza simbolica della Russia – scolpita nei materiali stessi della chiesa – assume oggi un significato squisitamente politico. L'altare rivestito di malachite e lapislazzuli non è solo una bellezza liturgica: è il lascito di un'epoca in cui Mosca guardava a Roma non come a un nemico, ma come a un possibile interlocutore. Oggi, nel pieno della crisi russo-ucraina, con un conflitto che ha spaccato il continente e lacerato l'anima ortodossa dell'Europa, quel gesto viene riattivato e trasformato in appello: tornate a parlare.
Senza una parola, Leone XIV sembra rivolgersi direttamente a Vladimir Putin. Non lo fa con denunce pubbliche o dichiarazioni altisonanti, ma con la forza muta dei gesti. Entrare in San Paolo fuori le Mura è, oggi, come entrare in una narrazione alternativa: quella di un mondo in cui musulmani e cristiani, ortodossi e cattolici, hanno potuto ricostruire insieme ciò che il fuoco aveva distrutto. E proprio ora, che l'Europa rischia un altro tipo di incendio, forse più pericoloso – l'incendio delle identità rigide, del nazionalismo religioso, dell'isolamento – il Papa indica una via silenziosa ma potentissima: il dialogo, fondato sulla memoria condivisa e sul rispetto simbolico.
Leone XIV non ignora la guerra. Ma non la nomina direttamente. Piuttosto, ci gira attorno, come un artista che scolpisce il vuoto. La sua diplomazia è quella dell'assenza eloquente. In un tempo in cui ogni parola può essere travisata, brandita, trasformata in arma, egli parla attraverso i luoghi, i percorsi, le memorie. La sua visita a San Paolo non è una nostalgia per l'antico, ma un progetto per il futuro. È un messaggio che dice: "Guardate cosa abbiamo costruito insieme, perfino dopo una tragedia. Possiamo farlo ancora."
Colpisce poi la risonanza interreligiosa del luogo. I doni di Fouad I e di Mohamed Ali non sono gesti scontati. Sono il segno di una fiducia possibile tra mondi apparentemente opposti. In un momento in cui i rapporti tra Occidente e mondo islamico sembrano nuovamente tesi, ricordare che due sovrani musulmani hanno contribuito alla ricostruzione di una basilica cristiana è, anche questo, un gesto politico e profetico. Significa ricordare che la cooperazione tra le fedi non è utopia, ma storia concreta.
Così, San Paolo fuori le Mura diventa oggi uno spazio di narrazione alternativa. Un palcoscenico dove il Papa recita il suo ruolo di costruttore di ponti, di tessitore di memorie, di regista del silenzio. Non serve un'enciclica per comprendere il messaggio. Basta osservare il percorso, la scelta dei luoghi, la forza delle pietre. E in quella basilica ricostruita grazie al fuoco della fede comune, la speranza – che sembrava perduta – torna a brillare.
In un'epoca in cui la diplomazia tradizionale vacilla, Leone XIV rilancia quella dei segni. Non chiede udienza a Putin, ma lo invita simbolicamente. Non convoca un sinodo panortodosso, ma cammina nei luoghi dove la collaborazione è già stata reale. La Chiesa, oggi come allora, si sposta, si restaura, si demolisce, si ricostruisce. Ma a guidare il processo non sono solo le mani, bensì una visione: quella di un mondo in cui la pace nasce dal riconoscimento reciproco e dalla memoria condivisa.
Marco Baratto
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